Ho seguito il confronto politico concernente la nuova Legge federale sulla caccia, combattuta dalla sinistra e verdi e sostenuta dagli altri partiti e soprattutto dalle associazioni agricole. Il dibattito, da parte degli oppositori, si è incentrato su immagini forti quasi apocalittiche e delittuose. Tant’è che hanno scelto una lince con sopra il mirino di un fucile come manifesto della campagna, quando si sa che la lince centra niente e la contesa è legata alla possibilità che la legge assegna ai cantoni di intervenire a regolamentare i branchi di lupi troppo numerosi che arrecano danni agli animali da reddito allevati dagli agricoltori. Intervento che il Canton Grigioni ha già dovuto intraprendere. Siamo di nuovo nella politica delle paure, che si fonda nell’urtare ad arte le sensibilità di gente che vive e opera nelle città in un contesto distante dalla realtà territoriale e naturale. Attuale oggetto del contendere sono le regioni di montagna dove i branchi di lupi si stanno ingrandendo e dove ancora troppo poche aziende agricole gestiscono il territorio e vi producono. Un contesto molto naturale. Talmente naturale che l’uomo diventa la rarità ma ciononostante la natura viene riportata come sempre, minacciata dalla presenza umana. Ho conosciuto e toccato con mano la realtà di queste regioni quando l’agricoltura era presente in misura importante. Avevo visto l’efficienza nel modo di vivere in queste società e l’incredibile rispetto per il territorio che li sfamava. In quel contesto non vi era posto per il lupo e la montagna non aveva mai conosciuto così tanta biodiversità. I primi movimenti dei verdi allora si battevano ancora per preservare questa realtà montana importantissima, riconosciuta anche da numerosi studi che confermavano l’incredibile arricchimento in specie animali, vegetali e insetti generato grazie alla presenza e attività umana legata per forza all’allevamento. Poi questi movimenti hanno cavalcato l’onda dell’estinzione degli animali selvatici, della protezione degli animali e hanno voltato le spalle a quella biodiversità creata dalle persone per abbracciarne una molto più redditizia politicamente. Hanno sfiduciato regolarmente l’uomo, le sue capacità artigianali e di convivenza con il regno naturale. Oggi siamo all’estremo. Oggi ci si sta approfittando della gente che vive in città, che ha nei supermercati di tutto e di più e che acquista sempre più online. Gente lontana dalla realtà che sicuramente non si ricorda nemmeno dell’efficienza del vivere di una volta, distratta dal consumismo e impoverita in capacità artigianali. E nel consumismo estremo anche l’animale selvaggio viene “consumato” idealizzandolo in mille modi e contraddizioni, tanto poi si compera l’agnello della nuova zelanda o il formaggino della capra che si deve tenere in stalla tutto l’anno per evitare spiacevoli rischi. Città che ci hanno fatto dimenticare da dove veniamo, come la terra ci sfama in tutte le parti del mondo e i pericoli intrinsechi nella natura degli animali selvatici. Non ancora tanti anni fa lo Stato pagava chi catturava le volpi. Infatti erano portatrici della rabbia. Oggi tutto dimenticato. Le volpi sono state idealizzate, le lasciamo mangiare vicino a casa ma potenzialmente creano un reticolato che permetterebbe alla rabbia di diffondersi con estrema rapidità. La rabbia, virus mortale, non è ancora debellato dal nostro pianeta. Potrebbe tornare eccome e i controlli alle frontiere sono parecchi. I nostri anziani erano così cattivi da tenere lontano il lupo? E l’uomo quando produce qualcosa nella natura bisogna sempre metterlo in contrasto con il mondo naturale. Mi sa che su queste fandonie in parecchi ci mangiano lautamente, in primis il commercio internazionale, quello che del km zero se ne fa un baffo.
Cleto Ferrari UDC