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Care amiche, cari amici, buona domenica!
Oggi è la Domenica delle Palme, e per chi è credente segna l’inizio di una settimana speciale, densa di simboli e di attese. È un’occasione per rallentare un attimo, guardarsi attorno e rimettersi in cammino — magari con un ramo d’ulivo in mano — verso un po’ più di serenità e pace.
Sintesi della settimana ed evoluzione
La nostra informazione domenicale dell’Economia con Amalia non può non occuparsi delle notizie che sono arrivate in questa settimana sul fronte dei dazi (qui il link all’articolo citato settimana scorsa che avevo dimenticato). Il 9 aprile, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato una sospensione per 90 giorni dei dazi che sarebbero dovuti entrare in vigore proprio quel giorno. Come prevedibile l’impatto sulle borse è stato positivo e ha in parte attenuate le perdite dei giorni precedenti. Anche in questo contesto precisiamo che sarebbe importante attendere un po’ di tempo affinché i mercati si stabilizzino prima di trarre conclusioni affrettate; in effetti, già ora possiamo vedere che molte valutazioni non sono lontane da quelle di inizio anno. E domani gli occhi saranno puntati proprio sul valore di un indice in particolare: il NASDAQ. Il NASDAQ è l’indice che raggruppa i principali titoli tecnologici della borsa americana, tra cui Microsoft, Cisco System, IBM, Apple, Google, Yahoo, Facebook e Amazon. Ci si attende un rialzo e questo grazie al fatto che l’amministrazione Trump ha deciso proprio in queste ore che non ci saranno dazi su smartphone, computer, chip e altri componenti elettronici di largo consumo. L’annuncio riguarda in particolare prodotti importati dalla Cina, ma anche da India, Vietnam e altri Paesi. Senza questa esenzione, gli aumenti degli avrebbero colpito direttamente i consumatori e messo in difficoltà aziende americane che dipendono dalla produzione estera, come Apple e non solo. Apple, che temeva il peggio, aveva già fatto scorta di IPhone importandone negli USA milioni di pezzi prima dell’entrata in vigore dei dazi. Una mossa che ora sembra meno urgente, ma che resta prudente, perché non è chiaro se questa esenzione sia definitiva o solo provvisoria. Da questa decisione non ci saranno conseguenze dirette per l’Europa, ma se i prezzi negli Stati Uniti restano stabili, è più facile che le pressioni si attenuino.
Pressioni di cui ha sicuramente tenuto conto il governo Starmer che ieri12 aprile, ha convocato d’urgenza il Parlamento britannico richiamandolo dalla pausa pasquale (cosa che non accadeva dai tempi delle Falkland) per approvare in una sola giornata una legge. Lo Steel Industry (Special Measures) Act è stato concepito per dare una risposta immediata alla crisi che tocca l’ultimo impianto del Paese capace di produrre acciaio vergine in Gran Bretagna e che sta per chiudere. Questa legge consente al governo di ordinare a British Steel di tenere accesi gli altoforni a Scunthorpe (città nella contea del Lincolnshire in Inghilterra), Acquistare materie prime (minerali di ferro, carbone) per continuare la produzione, di pagare i salari ai 3’500 lavoratori dello stabilimento e persino di prendere il controllo diretto dell’impianto, se necessario, anche con la forza e con sanzioni penali per i dirigenti che non rispettano le direttive. L’impianto è gestito dal gruppo cinese Jingye che è arrivato alla decisione di interrompere la produzione visto che la perdita giornaliera è stimata in circa 700 mila sterline al giorno (circa 750 mila CHF). Da parte sua il governo Starmer aveva offerto al gruppo 500 milioni di sterline (530 milioni CHF) per riconvertire la produzione in chiave ecologica, ma Pechino aveva rifiutato l’offerta, cominciando anche a interrompere gli ordini di materie prime. Così il governo ha forzato la mano, non arrivando ancora a una vera e propria nazionalizzazione, ma facendo capire che il prossimo passo sarà quello. In un momento di guerre commerciali e instabilità politica, il Regno Unito sarebbe stato l’unico Paese del G7 a dipendere interamente dall’estero per l’acciaio: questo avrebbe messo a repentaglio l’intera economia e forse anche sicurezza del Paese. Senza acciaio, niente edilizia, niente automobili, niente difesa. Non dimentichiamo che pochi mesi fa, anche la Svizzera ha pensato a un piano di sostegno per le sue acciaierie.
E chi invece è riuscito a contrattare è stato il Presidente dell’Argentina Javier Milei. Pochi giorni fa il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha approvato un nuovo accordo di finanziamento con l’Argentina. Si tratta di un programma da 20 miliardi di dollari (16.3 miliardi CHF) in quattro anni. I primi 12 sono stati erogati immediatamente e serviranno per rafforzare le riserve della Banca Centrale e per ripagare in parte un debito pregresso verso lo stesso FMI. In questo senso, ben si giustifica lo scetticismo di molti che hanno evidenziato come non sia la prima volta che si ottiene un prestito non tanto per rilanciare l’economia reale, bensì per evitare il fallimento. Da parte sua, tuttavia, il FMI ha dichiarato che il programma si basa sui progressi fatti dell’Argentina, come il raggiungimento del primo surplus fiscale in quasi due decenni e una riduzione dell’inflazione più rapida del previsto. Tuttavia, sempre il Fondo Monetario Internazionale, evidenzia che ci sono ancora sfide molto importanti da sostenere, prime tra tutte la necessità di ampliare il consenso politico e proteggere i più vulnerabili durante l’aggiustamento economico. Per ottenere lo sblocco degli altri fondi, l’Argentina dovrà rispettare una serie di obiettivi come il pareggio di bilancio e l’implementazione di riforme strutturali come liberalizzazioni, semplificazioni e incentivi per l’iniziativa privata che sono già al centro del programma politico del governo. E mentre si attende di valutare se il programma del presidente potrà essere attuato, l’Argentina starebbe già attendendo nuovi fondi dalla Banca Mondiale e dalla Banca Interamericana per lo Sviluppo. Speriamo che questa volta sia la volta buona e non sia l’ennesimo ciclo di “debiti nuovi” fatti per finanziare “debiti vecchi”.
E ringraziamo Liberatv per l’intervista fatta sulla decisione di Trump di sospendere i dazi (qui). In questo articolo sottolineiamo come la mossa della Casa Bianca probabilmente sia stata in parte programmata, ma accelerata dal panico dei mercati e dal crollo dei titoli di Stato USA. Analizziamo le conseguenze della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, già visibili su inflazione, filiere globali e scelte industriali. Riflettiamo sul ruolo marginale dell’Unione Europea in questo contesto, divisa tra alleanza atlantica e aperture verso Pechino. Infine, mettiamo a confronto la posizione dell’UE con quella più pragmatica della Svizzera, che ha scelto da tempo una linea più flessibile nei rapporti con la Cina.
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Ticinesi: ancora più poveri e infelici
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Svizzera? Bene, ma non benissimo
Ticino & Lavoro: un’opportunità in più per chi non vuole arrendersi
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In attesa di quello che ci riserverà l’economia la prossima settimana, vi auguro una splendida domenica!
Un caro abbraccio,
Amalia Mirante