Tempo di lettura: 9 minuti
Care amiche, cari amici, buona domenica!
Questa newsletter arriva un po’ più tardi del solito: la correzione degli esami ha avuto la precedenza (e anche un bel po’ di energia). Ma eccoci qui, con uno sguardo aggiornato alla situazione macroeconomica, tra inflazione che rallenta e crescita che tentenna, da Washington a Francoforte, senza purtroppo poter tralasciare il nuovo conflitto medio orientale.
Sintesi della settimana ed evoluzione
La nostra informazione domenicale dell’Economia con Amalia non poteva non iniziare parlando del nuovo conflitto tra Israele e Iran che non ha avrà solo effetti militari. In realtà, ha già scosso i mercati energetici e finanziari globali. In poche ore il prezzo del petrolio è salito ai massimi da gennaio: il Brent (è un tipo di petrolio che fa da valore di riferimento) ha toccato i 78,50 dollari al barile (circa 64 CHF), il West Texas Intermediate (WTI, pretto di riferimento per il mercato statunitense) i 77,62 (63 CHF). Anche il gas naturale europeo ha registrato un aumento del 4-5%. Il tutto in un contesto dove la parola chiave è una sola: incertezza. Ma non finisce qui. Un ulteriore punto delicato resta lo Stretto di Hormuz. È un passaggio marittimo largo circa 60 chilometri tra Iran e Oman, da cui transita ogni giorno un quinto del petrolio mondiale trasportato via mare. È una specie di imbuto strategico: se viene bloccato, anche solo parzialmente, gli effetti si sentono ovunque, dai mercati asiatici fino ai distributori europei. Per questo ogni tensione militare nella regione si riflette quasi subito sui prezzi dell’energia. Non solo energia. Anche l’oro ha reagito, confermandosi bene rifugio per eccellenza. Le Borse, invece, hanno accusato il colpo, ma senza crolli per il momento, vedremo cosa succederà domani: si attendono forti oscillazioni. A dominare è l’attesa e il nervosismo. Il mercato si muove secondo un copione già visto: in caso di guerra o tensione prolungata, le materie prime salgono, gli investitori cercano sicurezza, le valute legate al rischio perdono terreno. Se così fosse, i prezzi dell’energia rischiano di restare gonfi per mesi, con effetti su produzione, inflazione, bilanci pubblici e fiducia. Per l’Europa, ancora esposta alle fragilità del mercato energetico e per i Paesi emergenti, che hanno margini di manovra limitati, lo scenario è preoccupante. L’energia torna a essere la cartina tornasole della geopolitica. E ogni razzo lanciato ha una ricaduta anche su pompe di benzina, bollette e rendimenti.
Problemi che pensavamo di aver risolto. In effetti, a metà 2025, l’inflazione sembra sotto controllo sia negli Stati Uniti che in Europa, ma la crescita resta debole e in peggioramento. Negli USA, a maggio, l’inflazione annua è salita leggermente al 2,4%, ancora sotto le attese degli analisti. Anche l’indice core, che esclude energia e alimentari, è stabile al 2,8%, segnalando una pressione contenuta. L’indice mensile dei prezzi è aumentato solo dello 0,1%, e le aspettative dei consumatori per l’anno successivo sono scese al 3,2%. In parallelo, però, le stime di crescita sono state riviste drasticamente al ribasso: si prevede ora una contrazione del PIL del -2,8% nel primo trimestre, con consumi stagnanti, calo dell’attività manifatturiera e segnali di fatica nel mercato del lavoro. Anche altri centri di analisi riducono le previsioni di crescita annua a +0,6%, ben lontano dal +2,5% dello scorso anno. Finora, l’aumento dei dazi commerciali voluto dall’amministrazione USA non sembra aver avuto un impatto diretto sull’inflazione, ma nemmeno un effetto positivo sul rilancio dell’industria interna. La spinta non si vede. In Europa, la situazione è simile: l’inflazione si attesta all’1,9%, in calo, e la BCE ha risposto con un nuovo taglio dei tassi. Anche l’inflazione core europea è in discesa, con una previsione al 2,4% per l’intero 2025. Tuttavia, la crescita rimane fragile. La domanda interna è debole, la ripresa industriale stenta e le proiezioni economiche sono prudenti. In sintesi, i dati mostrano un’inflazione sotto controllo e una politica monetaria più morbida su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma con prospettive di crescita basse e pochi segnali positivi sul fronte reale dell’economia. La speranza è che il raffreddamento dell’inflazione non coincida con un congelamento della ripresa.
E cambiamo proprio parte del mondo e andiamo in Vietnam dove dal 2026 la tassa sugli alcolici aumenterà progressivamente, portandola fino al 90% entro il 2031. Una misura forte, che unisce ambizioni sanitarie, esigenze fiscali e calcoli politici. E che arriva in un Paese dove la birra è una presenza quotidiana, economica e culturale. Gli obiettivi dichiarati sono chiari: ridurre il consumo, proteggere la salute pubblica, e rafforzare le finanze statali. Dal prossimo anno, birra e superalcolici sopra il 20% vol saranno tassati al 65%, con aumenti annuali fino al 90%. Le bevande sotto il 20% si fermeranno al 60%. Il tutto in modo graduale, ma con un messaggio inequivocabile: bere costerà di più. Ma funzionerà davvero? È possibile, ma non scontato. Da anni i consumi sono in calo, anche a causa della tolleranza zero alla guida introdotta nel 2019. Alcuni stabilimenti, anche di grandi gruppi internazionali come Heineken, hanno già chiuso. Ora si teme un ulteriore contraccolpo: meno produzione, meno lavoro, più mercato nero. Perché qui sta il punto. Le tasse non bastano a cambiare i comportamenti se non sono accompagnate da politiche coerenti. Senza prevenzione, servizi di cura accessibili e controlli veri, c’è il rischio che il consumo si sposti verso prodotti artigianali o illegali. Più economici, meno sicuri, completamente fuori radar. Politicamente, il messaggio è chiaro: il Vietnam vuole mostrarsi disciplinato, moderno, attento alla salute. Ma una buona politica pubblica non si giudica solo dalle intenzioni. Si misura sugli effetti, anche quelli collaterali. Insomma: il bicchiere si riempie di buone intenzioni. Ma resta da vedere se conterrà anche buoni risultati.
E chiudiamo parlando di perequazione finanziaria, In “La perequazione punisce il Ticino: ecco perché” analizziamo il meccanismo di solidarietà tra Confederazione e tra Cantoni e gli importi che riceverà il nostro Cantone. A differenza di quello che è un po’ comodo raccontare, non c’è nessun meccanismo poco trasparente alla base degli importi ricevuti dal Cantone Ticino. Ci sono formule matematiche che bisogna conoscere per correggerle.
Trovate qui gli articoli della settimana
La perequazione punisce il Ticino: ecco perché
Se vi siete persi gli articoli delle scorse settimane, eccoli:
In Ticino avere un impiego non garantisce una vita dignitosa
Accordo Stati Uniti Cina: buone notizie anche per noi
Apprendistato, basta chiacchiere!
Il -0,3% del PIL non affonda Trump, ma l’informazione economica
Dazi sì, dazi no…
Trump ha fatto la prima mossa. Ma non controlla tutto il tavolo
Notizie Flash di economia
Avete voglia di aggiornamenti settimanali brevi? Non avete voglia di leggermi? Nessun problema: potete guardarmi e ascoltarmi su Instagram (qui) e su TikTok (AmaliaMirante555, qui: https://vm.tiktok.com/ZMdg6eHsb/).
Ascoltami
Ma sapete che trovate “L’economia con Amalia” anche su Spotify? Cliccate qui! E se non avete accesso a questa piattaforma, nessun problema: potrete ascoltare la versione audio in fondo agli articoli scritti sul sito. Qui sotto gli ultimi. Ticinesi: ancora più poveri e infelici
La perequazione punisce il Ticino: ecco perché
In Ticino avere un impiego non garantisce una vita dignitosa
Accordo Stati Uniti Cina: buone notizie anche per noi
Apprendistato, basta chiacchiere!
Il -0,3% del PIL non affonda Trump, ma l’informazione economica
Dazi sì, dazi no…
In attesa di quello che ci riserverà l’economia la prossima settimana, vi auguro una splendida domenica!
Un caro abbraccio,
Amalia Mirante