Come sempre l’estate dei test porta grande fermento nel mondo del rugby, oltre al fatto che è in corso il tour dei Lions in Nuova Zelanda. Premesso che solo chi non conosce profondamente il rugby può dare valore a queste partite come in passato, ricordando che quando non esisteva il campionato del mondo e in Europa si giocava solo il cinque nazioni, questi match decretavano la squadra più forte del pianeta, comunque qualche indicazione importante emerge. Se l’Italia mantiene il suo basso standard di qualità e vittorie , zero in tutto il tour, accontentandosi di prendere 40 punti da una modestissima Australia ma giocando, pare, a detta dello staff, molto bene, chi proprio esce con le ossa rotte è il rugby francese, distrutto nei tre match con il Sudafrica, rugby transalpino da qualche tempo messo in discussione proprio nel suo modo di formare giocatori e nelle strutture del campionato. Dice oggi Jean-Pierre Elissalde in un intervista a Midi Olympique, che quando va in una campo da rugby dove si allenano bambini, vede più scudi e conetti che ragazzini che giocano liberi… “i giocatori francesi hanno perso l’arte di maneggiare la palla, ma se a 15 anni nelle scuole rugby non si fa altro che lanciarli contro gli scudi, ciò non ci deve stupire. Gli scudi preparano al rugby quanto una bambola gonfiabile al matrimonio.” E aggiunge, che non si può avere una nazionale vincente se i giocatori non vi vogliono giocare, se non è la cosa più importante per un giocatore francese o di qualsiasi altra nazionalità. Tutto il sistema deve convergere verso la squadra di punta, in Nuova Zelanda, un giocatore all black , gioca quasi la metà di un nazionale francese, arrivando ai test sempre al top della forma. Ma c’è a mio parere dell’altro. Non tutto il rugby europeo va nella direzione francese, Irlanda, Scozia e Inghilterra hanno fatto progressi enormi negli ultimi anni, la soluzione è stata l’attitudine a contaminarsi con altri sistemi e a lavorare con l’abito su misura abbandonando la standardizzazione tipica dei sistemi anglosassoni. Il rugby francese e per quanto riguarda casa nostra, anche quello svizzero, non ha caso diretto da un DTN francese, ha la presunzione di pensare di essere sulla strada giusta senza mai mettersi in discussione o accettare di farlo, standardizzando procedure uguali per tutti che si rivelano per alcuni club fallimenatri. Nello stesso articolo Elissalde dice che “non si tratta di una crisi, perché una crisi è passeggiera ed è legata ad un momento, qui sono dieci anni o più che il rugby francese è in difficoltà…” . C’è un evento che nella storia si è presto dimenticato, che ha fatto da spartiacque su un nuovo modo di pensare al rugby, ed è stato il famoso e discusso quarto di finale a Cardiff, in cui i neozelandesi uscirono clamorosamente dalla RWC, perdendo 20 a 18 contro proprio i galletti francesi, e nonostante si fossero stabilizzati per molto tempo nei 22 avversari non tentarono il drop che gli avrebbe probabilmente fatto vincere il match, ciò non era previsto dal piano di gioco… Questa rigidità e credo, nel proprio game plan, che faceva dei neozelandesi la squadra più forte del mondo, si era rivelata nella competizione mondiale un boomerang, un vero e proprio tallone d’Achille. Molti tecnici neozelandesi sono venuti in Europa per contaminare il proprio rugby con quello più latino, per tornare in patria con un bagaglio maggiore e la capacità di utilizzare, forse anche non consciamente, un modello di pensiero divergente:
fluidità, ovvero la capacità di fornire il maggior numero possibile di risposte ad una domanda/problema;
-flessibilità, ovvero il numero di categorie concettuali alle quali le risposte del soggetto possono essere ricondotte;
-originalità, ovvero la capacità di esprimere idee nuove e innovative;
-elaborazione, ovvero l’abilità di dare concretezza alle proprie idee.
Oggi gli all black vincono giocando solo vicino al pack, come nell’ultimo match contro i Lions, snaturando del tutto il loro gioco,o, solo la settimana precedente, giocando unicamente al largo come contro Samoa; sono imprevedibili e cambiano e adattano durante il match il piano di gioco, ad una velocità di esecuzione almeno doppia rispetto agli altri. Non imparano uno spartito a memoria, interpretano uno spartito che tutti hanno in testa.
Su ciò si deve fondare, a mio parere, oggi, il pensiero rugbistico, che potrà cambiare e far uscire dai momenti di crisi intere squadre e federazioni.
Alessandro Borghetti